domenica 29 novembre 2015

Città di carta, John Green





Nel 2006 lo scrittore statunitense John Green vince il Pritz Award per il suo primo romanzo Cercando Alaska.
"Pisciare è come leggere un bel libro: è durissima smettere una volta che hai cominciato."
Due anni dopo, mentre Quentin Jacobsen piscia, per mano del suo fautore Green, pensa questo. Ma andiamo avanti, non è giusto giudicare uno scrittore sol perché crea un personaggio che non sa fare bene le similitudini.
Se siamo infatti appassionati di Youtube John, insieme a suo fratello Hank, gestisce e crea una serie di video in cui tratta di tutto. Precisamente due giorni fa, John ha caricato un video nel quale parla dell'aumento della violenza negli USA (circa il 50% dal 1990); in un altro discute sulla crisi dei rifugiati siriani e l'aumento di questi che, insieme alla gente proveniente dall'Afghanistan ed Eritrea, attraversano il mare con l'aiuto dei contrabbandieri, cercando asilo presso le nazioni europee.




"Quando si discute di rifugiati, spesso sento dire «Beh, non è un problema nostro» o «Dobbiamo prenderci cura della nostra gente». Eppure noi siamo un'unica specie che visceralmente condivide un mondo ormai globalizzato e gli uomini, tutti gli uomini, sono la nostra gente. E quando gli oppressi e gli emarginati muoiono perché sono oppressi ed emarginati, la colpa è del potere."
Se secondo il Time Magazine John Green è tra le cento persone più influenti al mondo, in Città di carta non dobbiamo immaginarci solo un noiosissimo squarcio dell'adolescenza e del modo tutto suo di innamorarsi. Soprattutto perché in Margo Roth Spiegelman non c'è nulla di adolescenziale: siamo di fronte a una ragazza che canta se stessa, selvaggia e vagabonda, inneggiando la sacralità e preziosità della vita. Margo prova terrore al pensiero di essere risucchiata dal college, il lavoro, il matrimonio, i bambini e tutta quella merda lì.
Ma perché? Il "te l'ho detto, sto leggendo un sacco" non ci basta.




"Ero seduto. Ascoltavo. E sentivo cose su di lei, sulle finestre, sugli specchi. [...] Margo Roth Spiegelman era una persona. Non avevo mai pensato a lei in questi termini: un grave errore delle mie precedenti fantasie. Per tutto il tempo - non solo da quando era scomparsa, ma da dieci anni almeno - avevo pensato a lei senza ascoltare, senza sapere che l'avevo ridotta a una misera finestra."


"C'è un sacco di tempo tra quando le crepe cominciano a formarsi e quando andiamo a pezzi. Ed è solo in quei momenti che possiamo vederci, perché vediamo fuori di noi dalle nostre fessure e dentro gli altri attraverso le loro."
Margo commette un grande errore prima di scappare via: non tenta nemmeno di essere se stessa, di spiegarsi come gli altri la vedono e di confidare a questi come si sente.



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lunedì 23 novembre 2015

I fratelli Karamazov, Fëdor Dostoevskij

“Peggio di tutto è che la mia natura è abietta e troppo passionale. Dovunque e in tutto arrivo al limite estremo, in tutta la mia vita ho sempre oltrepassato il limite...”





Così scrisse Fëdor Dostoevskij al suo amico Majkov nel mentre gli confidava la sua furiosa brama di vita e faceva luce sulla sua anima sensibile alle sofferenze del mondo. Figura quindi vicina all’eroe che rappresenta il cuore e il centro de I fratelli Karamazov: Ivan Fëdorovič Karamazov, «Ivan l’enigma».
Non facciamoci abbindolare dall’autore che, con il suo redattore, finge di biasimare il suo alterego appiattendolo: il fatto che il racconto su Il Grande Inquisitore sia pronunciato proprio da Ivan non ci deve essere indifferente.
La leggenda, nota ai lettori come uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo bellissimo, un patrimonio umano inestimabile, affronta un grande problema: quello del cristianesimo e del socialismo.
È possibile l’armonia sulla terra?
Cristo ha lasciato un onere all'uomo, quello della libertà: paradossalmente, il potere, prima fondato sulla fede, adesso l’ha sottomessa. L’originario spirito cristiano è andato distrutto dalle cose materiali. Non tornare più, dice l’Inquisitore al Cristo che tace, perché sei scomodo per gli uomini, ormai abituati al tuo simulacro e a ciò che i sacerdoti hanno adattato ai loro bisogni.
Attraverso questo osanna alla fratellanza e alla libertà degli uomini, l’autore auspica che ogni persona oggi, sulla terra, si serva della società per vivere economicamente, giuridicamente e moralmente in maniera equa. Senza la necessaria esistenza di un paradiso, senza che i sacrifici siano trasformati in un domani ingannevole.





Nel giugno del 1839 Michail Dostoevskij, padre di Fëdor, muore ucciso dai contadini da lui maltrattati: secondo alcune testimonianze, il figlio ebbe il primo attacco di epilessia.
Nel libro, il servo Smerdjakov, in odio con l’umanità e convinto che si possa rinnegare qualsiasi cosa sacra, nutrito non dal «cuore elevato» di Ivan ma da qualcosa di mal orecchiato, uccide il padre. Dostoevskij circonda di sospetti uno dei tre fratelli, Mitja e intrappola anche Ivan, accusandolo di coscienza malata: la responsabilità di un’idea è più grave di quella di un azione.
Eppure la teoria di Ivan e l’atto di Smerdjakov sono differenti: secondo la leggenda la parola di Gesù pregnava di fratellanza e uguaglianza e invece la Chiesa la usò per sopprimere gli uomini sui roghi dell’Inquisizione.





È impossibile far tornare indietro il sapere: questo significa che gli uomini dovrebbero essere a favore di armi mortali? O che dovremmo rinunciare alla scienza, allo sviluppo per il pericolo di una degradazione dell’umanità?
È questo il dilemma insolubile di Dostoevskij, come conciliare due delle più grandi aspirazioni umane: la libertà e il bene.



“Sta diventando generale, ai nostri tempi, una grottesca incapacità dell’intelletto umano a intendere che la vera garanzia della propria persona non si raccomanda già agli sforzi dell’individuo isolato, ma all’universale comunanza umana. Ma non potrà a meno di avvenire che scoccherà il termine anche a questo tremendo isolamento e tutti comprenderanno una buona volta quanto contrario alla natura sia stato il loro separarsi l’uno dall'altro”.

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